top of page

Grandi opportunità e grandi rischi per l'Italia nelle politiche energetiche UE

Pubblichiamo l'intervento di Gianbattista Rosa, membro del Comitato scientifico dell'Osservatorio Metropolitano di Milano, al Network Meeting and Mediterranean Conference presso la Fondazione Neumann – Madrid 17/18 Maggio 2023


Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso la politica di liberalizzazione energetica è stata uno dei grandi successi della unificazione europea. A un sistema basato su burocratici e costosi monopoli statali si è sostituito un articolato ventaglio di fornitori, che competono in termini di prezzi, servizi, fonti energetiche e progetti di ricerca, sia pure nei limiti di un settore inevitabilmente per sua natura molto regolamentato.

Negli ultimi anni, peraltro, la crescente rilevanza assunta dalle politiche di decarbonizzazione, necessarie per contrastare il cambiamento climatico, sta portando le scelte energetiche della UE verso soluzioni sempre più dirigistiche e opinabili, che rischiano di minare la salute economica dei paesi UE senza migliorarne quella ambientale.

Non è in discussione la necessità di uno sforzo coordinato dei paesi europei per contribuire ad eliminare le emissioni di gas serra: si tratta di un obiettivo imprescindibile per la salvaguardia del pianeta. Lo “European Green Deal” promosso dalla Commissione Europea nel 2019 elenca correttamente le 3 priorità da perseguire: accelerare la decarbonizzazione, garantire la sicurezza e stabilità degli approvvigionamenti energetici, promuovere la competitività del sistema industriale europeo.

Nelle politiche e nelle azioni che dal Green Deal nascono, peraltro, appare evidente come gli ultimi due obiettivi vengano sacrificati ad un malinteso perseguimento del primo. Quando si parla di politiche UE, si badi, non si parla di astrazioni, ma di pesanti vincoli normativi e enormi risorse da investire: sulle sole energie rinnovabili, lo stanziamento è di 1000 miliardi di € in 10 anni. E proprio su una fortissima accelerazione delle rinnovabili, come sul passaggio drastico all’elettrico, la UE punta quasi tutto, anticipando al 2030 obiettivi previsti per il 2050, che diventa l’anno salvifico in cui la UE dovrebbe diventare “carbon neutral”. E qui cominciano i problemi.

Nessuno dubita che occorra spingere forte perché le rinnovabili, insieme a nuove tecnologie ancora in fasce come l’idrogeno verde, producano quantità sempre crescenti di energia. Ma con criterio, e con una cautela preliminare. Le rinnovabili (eolico, solare, idroelettrico) hanno, come ben noto, questa caratteristica comune: la produzione di energia non è programmabile né garantita, perché dipende dal meteo, quindi non potranno mai, finché non si troverà il modo di stoccarla o riconvertirla, essere la base su cui si regge un sistema paese. Basti pensare che nel 2022, dopo anni di forte crescita, la produzione di rinnovabili in Italia è calata del 13%, perché la lunga siccità ha fatto crollare la quota di idroelettrico, e l’eolico ha sofferto. Lascio immaginare, nel 2023, quanto potrà essere la produzione di energia solare nei mesi di aprile e maggio, quasi tutti nuvolosi: aziende, ospedali, auto elettriche non possono marciare con una fonte energetica intermittente.

Le rinnovabili sono inoltre attraenti sulla carta, ma non sempre nella realtà. Realizzare impianti solari ed eolici si sta rivelando più complicato e meno conveniente di quanto ipotizzato, anche in Europa, dove pastoie burocratiche e sensibilità paesaggistiche sono ostacoli ben noti. Non solo Larry Fink, CEO di Blackrock, il più importante fondo d’investimento mondiale, ma anche il fondo sovrano norvegese, che fa della decarbonizzazione la propria missione, segnalano che le opportunità di investimento nelle rinnovabili si stanno restringendo più che ampliando, se si vuole avere un ritorno economico sostenibile e rispettare norme e procedure. Anche sul fronte dei materiali i problemi non mancano: il maggiore progetto eolico off-shore nel mare del Nord è bloccato perché gli unici possibili fornitori sono cinesi, e impegnati su altre priorità (anche che le materie prime chiave per i pannelli solari sono in gran parte di provenienza cinese).

Per realizzare gli obiettivi definiti dalla UE, gli investimenti nelle rinnovabili dovrebbero immediatamente triplicare, mentre nel 2022 sono cresciuti appena del 17%: non stupisce, visto che per realizzare un campo eolico, in Italia e Germania, con 3-4 mulini occorre compilare, per i permessi, circa 70 dossier e spendere oltre 30.000 € in sole fotocopie burocratiche. Né del resto è auspicabile una totale liberalizzazione dei permessi: in passato criminalità organizzata e speculatori improvvisati hanno approfittato abbondantemente di maglie troppo larghe nelle autorizzazioni.

Avanti con le rinnovabili, dunque, ma senza ipocrisie. In “1984” di George Orwell compare il disturbante diktat del Ministero della Verità “2+2=5”: non si trattava di una invenzione dell’autore, ma dello slogan dei piani quinquennali staliniani, nei quali si chiedeva di fare in 4 anni la produzione prevista nei 5, con i risultati disastrosi che sappiamo. Le strategie si definiscono con i dati di realtà, non con generose intenzioni.

L’altro fattore inquietante delle politiche europee è la scelta forzata e accelerata dell’elettrico come, di fatto, unica tecnologia per gli autoveicoli e, a seguire, tutti i mezzi di trasporto. Solo l’Europa e la California hanno scelto di vietare la produzione di auto a combustione a partire da 2050. I dubbi sulla sensatezza di questa scelta sono numerosi, sia dal punto di vista economico che ambientale.

E’ ben noto il paradosso che riguarda la alimentazione delle batterie: se la riconversione della produzione di energia in rinnovabile non avrà una enorme quanto improbabile accelerazione, invece di auto che viaggiano con combustibili fossili, avremo auto che viaggiano con batterie elettriche alimentate da centrali che bruciano combustibili fossili: poco cambia per la CO2. Come la rete elettrica italiana poi riesca ad alimentare un simile parco auto, non si sa: se solo il 50% delle auto fosse elettrico, assorbirebbe oggi il 75% della produzione elettrica nazionale. Che la stessa possa moltiplicarsi a breve anni per reggere l’urto, pochi lo credono.

Ma l’incognita maggiore sulla accelerazione verso l’auto elettrica viene dalle catene di fornitura della produzione di batterie, oggi del tutto inadeguate e concentrate in stati, in primis Cina e Russia, verso i quali non è opportuno dipendere in modo vitale. Le importazioni europee di litio e grafite (maggior produttore: Cina) dovrebbero aumentare di 19 volte rispetto ad oggi, quella di nickel (maggior produttore: Russia) di 26, manganese e cobalto di 10 volte. Questo quando il solo mercato USA assorbirebbe il triplo della attuale produzione di litio, che si prevede andare in “sold out” globale già nel 2030. Un solo uomo, Yu Qun Zeng, in Cina, produce oltre un terzo delle batterie mondiali, e cinesi sono sei dei 10 maggiori produttori. La Cina del resto, è l’unico paese a saper produrre auto elettriche a basso costo: non per nulla le esportazioni di auto elettriche cinesi in Europa sono passate da 300.000 a 3.700.000 in un solo anno, il 2022. Se consideriamo che l’auto vale il 10% del PIL europeo, possiamo capire l’impatto di questa svolta sulla nostra economia. L’auto elettrica di massa potrà essere sostenibile solo con batterie di nuova generazione, che non vedranno la luce prima di diversi anni: una accelerazione esagerata in quella direzione non ha quindi senso da un punto di vista né economico, né ambientale, e ancor meno geopolitico.

Altra priorità della politica energetica UE è l’isolamento delle abitazioni, normativa non ancora finalizzata nei particolari ma che, nella sua prima configurazione, comporta rischi elevati. In questi giorni si è fatto in Italia il calcolo finale del costo della sciagurata normativa sul superbonus edilizio: 86 miliardi invece di 41, come dire 4 leggi finanziarie. Una indiscriminata accelerazione sugli isolamenti, oltre a mettere fuori mercato una quota rilevante del patrimonio edilizio italiano, rischia di farci ripetere l’esperienza: costi dei materiali triplicati, spinta inflattiva, truffe ed abusi, spreco immane di risorse.

Dobbiamo dunque rinunciare alla decarbonizzazione, per tutelare l’economia? No, perché esistono strade alternative, pur presenti nelle politiche europee anche se troppo timidamente: rinnovamento delle infrastrutture, liberalizzazione del mercato, e, soprattutto, rilancio del nucleare.

Per ragioni politiche inerenti soprattutto la Germania, il nucleare è stata la in questi decenni la grande occasione perduta dall’Europa. In Europa il nucleare c’è, in 13 paesi con 106 impianti, e fornisce tuttora il 25% della energia europea. Ma è un nucleare vecchio e costoso, con il 40% degli impianti verso fine vita, e solo 3 in costruzione: mentre il resto del mondo investiva su reattori di ultima generazione, qui si parlava di uscita. Oggi ci si è finalmente resi conto che il nucleare, oltre ad aver fatto molti progressi su tecnologie di costruzione e smaltimento scorie, è l’unica tecnologia stabile senza emissione di CO2, ed è quindi l’indispensabile complemento alle rinnovabili: la distinzione strategica è quindi ora non più tra “rinnovabili vs. non rinnovabili”, ma tra “high carbon vs. low carbon”, tra le quali appunto il nucleare. Questo primo passo la UE lo ha compiuto, deve ora subito seguire una strategia di rilancio, con adeguati capitali, formazione di competenze, sviluppo di tecnologie all’altezza dei competitori. Nel resto del mondo il rapporto tra impianti in costruzione ed esistenti è di 1 a 8, in UE di 1 a 35: occorre colmare il gap il più presto possibile.

Il nucleare richiederà comunque tempi medio lunghi: esistono risposte anche più immediate, pur se meno mediatiche delle rinnovabili, per aumentare la sostenibilità ed efficienza del sistema energetico europeo. Il rinnovamento e potenziamento della rete elettrica innanzitutto, che non solo potenzia l’offerta, ma generando efficienza riduce gli sprechi e agevola la messa in circolo della energia prodotta localmente dalle rinnovabili stesse, oggi spesso poco sfruttabile per limiti di portata. Inoltre, la liberalizzazione ulteriore dei mercati: solo il 10% dell’energia è oggi potenzialmente “cross border”, ed ancora meno quella effettivamente circolante tra i paesi. Bisogna combattere le resistenze alla creazione di un mercato realmente competitivo, che la UE ha ben identificato in un apposito documento: lentezze burocratiche, ostacoli posti dai big players, mancanza di informazioni ai consumatori, asimmetrie tecnologiche.

In conclusione, la lotta alle emissioni deve restare un obiettivo chiave delle politiche europee, e gli investimenti sulle rinnovabili sono indispensabili. Ma la UE produce oggi solo il 7% delle emissioni globali, le ha già ridotte del 30% rispetto al loro picco e continua a ridurle. Non è dalla UE che verrà la salvezza né la condanna del pianeta: la Cina da sola produce il 28% delle emissioni, e continua ad aprire centrali a carbone; negli ultimi 30 anni i paesi extra UE hanno immesso una quantità di CO2 pari a quella prodotta da tutti in tutte le epoche sino ad allora, ed inevitabilmente continueranno a farlo perché la loro economia lo esige. La UE mira a ridurre ancor prima e ancor di più la sua quota: non riuscirà a farlo se non in maniera impercettibile, e con costi enormi che graviteranno sui nostri sistemi sanitari e sociali. Non dobbiamo sacrificare la nostra economia, e mettere a grave repentaglio la nostra indipendenza energetica da regimi pericolosi, quando gli stessi obiettivi possono essere raggiunti senza correre rischi così importanti, oltretutto a favore di regimi che non vedranno certo con dispiacere queste nostre vulnerabilità.

bottom of page